Un tarlo antico: l'antidemocratismo

Uno dei presupposti della democrazia moderna è quello della libera e periodica scelta del popolo dello schieramento da cui essere governato: più partiti o più schieramenti si presentano al giudizio del popolo "sovrano", che in base ai programmi e alla affidabilità degli uomini che li sostengono, scelgono ora l'uno ora l'altro.

La democrazia non è una invenzione moderna, già i Greci ne conoscevano forme abbastanza avanzate, così come i Romani, almeno per certi aspetti e per qualche tempo. Elementi di democrazia sono, tra l'altro, rintracciabili anche nei Comuni del Basso Medioevo. Parallelamente antiche sono le inimicizie verso la democrazia: regimi dispotici, o tirannici, o autocratici hanno da sempre costellato il panorama dei regimi politici. Ciò che è (relativamente) nuovo è quella forma di contestazione della democrazia che viene non già dai gruppi e dalle classi (socialmente ed economicamente) dominanti, ma da chi si dice amico e difensore del "popolo", sostenitore dei diritti dei meno "fortunati".

Ho detto relativamente, in quanto già in età precontemporanea alcune forme politiche autoritarie connotate da tratti populistici. Tuttavia è dalle soglie della cosiddetta età contemporanea che prendono forma sistematica idee che contestano le regole democratiche in nome di quello stesso popolo (demos) che in esse dovrebbe massimamente rispecchiarsi. Il primo importante teorico che procede in tale direzione è sicuramente Rousseau, seguito da Marx e da Lenin (con tutto il loro seguito della loro discepolanza dottrinale).

un capostipite, Rousseau

Rousseau riteneva che il legislatore abbia un compito propriamente demiurgico, in qualche modo divino: non esistendo alcuna legge naturale che regoli la socialità, la convivenza umana, tutto ciò che ad essa si riferisce sarà da inventare. Suo compito perciò sarà quello di "cambiare la natura umana" (l.II, c.7), di "alterare la costituzione dell'uomo", sia pure "per rinforzarla". In secondo luogo tale invenzione non dovrà vedere coinvolti i cittadini, gli esseri umani, suoi simili, perché troppo forte sarebbe la tentazione dell'egoismo, che attanaglia ogni uomo preso come singolo. Non da una somma di volontà particolari, inevitabilmente egoistiche, può nascere una Volontà generale che voglia davvero il bene comune, ma da un Legislatore, dipinto da Rousseau con tratti più che umani. Egli infatti è "una presenza straordinaria all'interno dello stato", un essere eccezionale, o per dirla con Maritain un "superuomo", "al di fuori e al di sopra di ogni ordine umano" (Tre Riformatori, tr.it. Morcelliana, Brescia p. 172). In Rousseau vi è insomma la (prima) teorizzazione di quel totalitarismo, che avrebbe poi celebrato i suoi fasti nel '900: una minoranza, un leader o una avanguardia rivoluzionaria, può assumersi il compito di guidare il popolo, perché quest'ultimo è immaturo, o almeno troppo facilmente condizionabile da motivi immediati. Può, tale avanguardia, permettersi di trascurare il volere della maggioranza dei cittadini, perché non sempre la maggioranza aderisce al vero bene della collettività, che è invece oggetto della Volontà Generale, il cui corretto interprete appunto è, o può essere, una minoranza.

Si trovano in Rousseau dei tratti che sarebbero poi passati in buona parte nel filone "rivoluzionario" della cultura "contemporanea":

qualche valutazione

Negare l’esistenza di una natura umana, checché ne dica Vattimo, è un principio gravido di conseguenze violente. Se infatti non esiste natura umana, non esistono un bene e un male oggettivi: a deciderli chi sarà? Il più forte, come già avevano ammesso alcuni sofisti. A meno che, come vorrebbe la corrente “di sinistra” che da Rousseau arriva fino a Lenin, siano ai deboli a costituirsi in “forza” prevalente: in modo comunque violento.

Negativa è anche la negazione del valore della persona: ogni individuo deve concepirsi totalmente immerso nel corpo sociale, in ultima analisi in quella totalità che è lo stato. Il che significa che l’individuo non è rapporto l’Infinito, ma ogni eventuale residuo religioso deve passare esaurientemente attraverso lo Stato, vera divinità immanente. Il che, ulteriormente, implica che all’individuo non sia riconosciuta una competenza al vero: non ho in me i criteri per discernere la verità, per paragonarmi col vero, ma devo mutuarne la conoscenza dalla collettività plasmata dallo Stato. Il Ministero della Verità di orwelliana memoria è la raffigurazione letteraria fedele delle implicazioni disumane e grottesche di tale concezione. Negato il valore della persona come un tutto (che invece il Cristianesimo afferma: andrò in Paradiso o all’Inferno per la mia libera scelta), l’individuo è ridotto a una parte del tutto sociale-statale: al punto che lo Stato può e deve farsi carico non solo del mio benessere e della mia sicurezza, ma della mia felicità e del mio pensiero. Come diceva Orwell lo stato come totalità “non solo vi impedisce di esprimere certe idee, ma vi detta anche ciò che dovete pensare” (Saggi, New York 1968).

Negativa è all’avversione al formarsi di aggregazioni libere, che lascino l’individuo meno solo di fronte allo strapotere dello Stato: al contrario, come diceva Tocqueville, la vera democrazia c’è se gli individui possono aggregarsi, costituire dei contropoli alla invadenza altrimenti onnipotente dello Stato.

Negativo è infine il negare che la maggioranza dei cittadini abbia una funzione decisiva nel decidere da chi essere governato. Qui è opportuno soffermarsi per chiarire un equivoco di molta cultura contemporanea. Si tratta di stabilire che cosa la “maggioranza” possa determinare: nella concezione di ispirazione cristiana non significa in alcun modo che essa crei il bene e il male, ne sia perciò arbitro; non è in questo senso che il popolo è sovrano. Solo Dio, Creatore e Signore di tutto, è sovrano. Solo Lui sa e determina che cosa sia bene e che cosa sia male. Perciò uccidere un bambino non ancora nato resta un male, per quanto vasta sia la maggioranza che lo nega. In molte concezioni immanentistiche invece la sovranità popolare è intesa nel senso che è la maggioranza (o chi pretende di esprimerne insindacabilmente il bene) a inventare, a creare il bene e il male, che non esistono anteriormente all'atto creativo della volontà umana. Ora, paradossalmente, proprio la filosofia politica di ispirazione cristiana si trova ad essere più cordialmente rispettosa del volere della maggioranza: non quale creatore, ma quale interprete di un bene e un male oggettivamente dati (che vanno perciò riconosciuti, non inventati); mentre, al contrario, proprio chi assegna all'uomo un potere creatore nei confronti dei valori, a partire dalla sfiducia nella esistenza di una oggettività buona della realtà, si trova a scivolare facilmente nella tentazione di forzare la mano al “popolo” . Infatti chi pensa che esista una oggettività del bene e del male, pensa anche che la natura umana esista e che sia orientata al bene, per cui la intelligenza umana è strutturalmente orientata al vero; per cui, ulteriormente, nonostante il peccato originale, è statisticamente probabile che la maggioranza degli esseri umani giudichi in modo sostanzialmente corretto sulle questioni di interesse comune. Chi invece non ha nessuna garanzia della bontà della natura umana e della bontà del reale, deve affidare tutto allo sforzo, in qualche modo titanico, della propria volontà e del progetto che ne nasce.

Uno sguardo all'oggi

La filosofia cristiana sa che la natura umana non è perfetta (per il limite creaturale della finitezza e per il peccato originale), e sa che occorrono delle precise condizioni perché un sistema democratico possa funzionare bene; tuttavia i suoi presupposti di fiducia nella bontà ontologica del reale la predispongono ad accogliere nel modo più cordiale la democrazia. Purché appunto essa sia intesa come possibilità non di creare, ma di riconoscere i valori, a cui ispirare la gestione della cosa pubblica.

Esiste comunque una motivazione pragmatica e totalmente “laica” della democrazia: il fatto che essa è comunque una condizione inevitabile per evitare rovinose lacerazioni tra le parti della società; si può dire che in ultima analisi essa, in molte società attuali, è garanzia dalla guerra civile (o da un regime apertamente repressivo).

Se non altro in base a questa pragmatica considerazione, come pure come conseguenza del fallimento di tutti gli esperimenti antidemocratici del '900, cioè di tutti i totalitarismi, oggi un fronte molto ampio di forze politiche e ideologiche dice di accettare la democrazia, nel suo modello liberaldemocratico: è quanto già alla fine degli anni '80 aveva notato Fukuyama, sostenendo la “fine della storia”.

Esistono però dei dubbi sul fatto che forze che fino a poco tempo addietro rinnegavano la democrazia, oggi la abbiano accettata cordialmente e lealmente. Non parliamo di argomenti di carattere elettorale, ma di un habitus profondamente radicato, che è interesse di tutti individuare e rimuovere, perché la compagine civile possa attuare una pacifica e dialogica convivenza. Quest'ultima sarebbe in effetti minata se una parte, magari numericamente importante, della società facesse della accettazione dell'istituto democratico una semplice tattica temporanea, o comunque una formalità che ci si senta legittimati a oltrepassare allorché lo si possa con vantaggio per la propria fazione.

Vediamo allora: da dove nascono i dubbi, di cui parliamo? Non tanto dal fatto che in uno schieramento ci sia chi, per così dire, vuol vincere (le elezioni) a tutti i costi. Ciò è scorretto, ma entro certi limiti costituisce un tasso di patologia ricorrente e di fatto inevitabile. Non si tratta nemmeno del fatto che uno schieramento che abbia perso cerchi di fare presenti le proprie istanze, all'occorrenza in modo anche vivace e aspro. Si tratta dell'atteggiamento mentale di chi giudica con malcelato fastidio la necessità di confrontarsi con un mandato popolare. Di chi è pronto a contestare chi ha ottenuto il mandato popolare non su questa o quella questione particolare (in quanto tale), ma sul fatto stesso di potere esercitare effettivamente tale mandato.

Ora, che ci sia un tale atteggiamento, anche nel nostro paese, mi pare difficilmente contestabile. Esso può derivare da molti fattori: il fatto di non avere una consolidata esperienza di democrazia dell'alternanza (a differenza di altri stati), e anche il fatto, legato al precedente, di avere avuto una forte presenza di partiti negatori della democrazia. Ne vogliamo una prova? Basti pensare alla appena trascorsa campagna elettorale, dove in particolare uno schieramento ha fatto non della critica a singoli punti programmatici, ma della delegittimazione complessiva della parte avversa la propria bandiera di battaglia: più che per parlare di cose (fatte e da fare), qualcuno ha speso gran parte del tempo a sua disposizione per denigrare l'avversario. Forse non si tratta solo di una tattica elettorale, ma, più al fondo, della spia di una sfiducia profonda nella capacità dei cittadini di capire, ossia in ultima analisi della sfiducia nella competenza personale al vero, di cui parlavamo prima. Vi è un ulteriore elemento sintomatico: il persistere di tentazioni giustizialiste. Con questo intendiamo dire non tanto che venga sostenuta la, legittima e necessaria, soggezione alla legge e dunque “giudicabilità” di chiunque. Si tratta piuttosto della concezione per cui lo strumento giudiziario viene sistematicamente usato per finalità politiche, rispondendo all'esigenza non di sanzionare dei reati, ma di demonizzare non solo un individuo o un gruppo (ciò che già sarebbe grave e inaccettabile), ma una parte della società, la parte appunto maggioritaria. Chi sostiene insomma questa concezione non esiterebbe a mettere in carcere anche il 70% della popolazione. Se ovviamente ciò fosse possibile!

È interesse di tutti invece rinunciare alle “armi improprie”, sintomo di nostalgie totalitarie, per accettare quel sistema non certo privo di difetti che è il sistema democratico. Ciò sarà tanto più facile e sicuro, crediamo, quanto più si darà testimonianza concreta che la politica non esaurisce tutto l'umano, ma è solo un ambito strumentale-funzionale, che deve non creare valori, ma lasciarli esprimere.